Soluzioni per il giornalismo costruttivo

Il direttore generale dell’Onu Michael Møller ha lanciato un appello ai media perché si impegnino per un “constructive journalism”. Un giornalismo capace di educare, coinvolgere, mobilitare i cittadini, che li aiuti a capire, ad agire, a trovare risposte e soluzioni.

cristina galasso
7 min readMay 15, 2016

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Photo by Chat The Balkans – Flickr

Gli italiani nel 2015 sono balzati in testa alla top ten dei popoli più infelici e pessimisti. Siamo addirittura più pessimisti di iracheni, greci e palestinesi. Secondo l’Indagine Win-Gallup sulla felicità nel mondo, quel che sembra condannare gli italiani al pessimismo e all’infelicita è la mancanza di prospettive, soprattutto dal punto di vista economico. La crisi, la disoccupazione, l’insicurezza sociale ci stanno mettendo a dura prova, eppure Istat ha censito nel nostro Paese 6,6 milioni di persone che svolgono attività di volontariato. Un italiano su otto mette gratuitamente il suo tempo al servizio degli altri, un tasso pari al 12,6% della popolazione, uno dei più alti in Europa. Nel 1993 era il 6,9%, nel 2011 il 10%.

Chi svolge attività di volontariato non è né pessimista né infelice perché per dedicarsi alla cura degli altri e del bene comune occorre una buona dose di ottimismo, di fiducia nel prossimo e in se stessi. Il volontariato è senz’altro un antidoto al pessimismo, tuttavia non possiamo pensare di diventare tutti volontari per vivere in un Paese più felice e ottimista. Potremmo però provare a guardare il nostro presente e il nostro futuro con gli occhi di quei 6,6 milioni di volontari. Vedere più da vicino il loro lavoro, capire ciò che li spinge ad impegnarsi e conoscere gli effetti di quell’impegno forse ci aiuterebbe ad essere tutti più felici e ottimisti.

Ascoltare un volontario che racconta i suoi pomeriggi in un centro diurno per ragazzi disabili o leggere la storia di chi gratuitamente insegna l’italiano ai migranti o, ancora, vedere in un telegiornale un servizio tutto dedicato a chi di notte offre rifugio alle persone senza dimora, potrebbe aiutarci ad essere più fiduciosi, meno insoddisfatti e arrabbiati. Se questo tipo di notizie fosse una presenza costante nei palinsesti televisivi e nelle pagine dei giornali, forse impareremmo a considerare i problemi del nostro tempo in un’ottica più positiva e costruttiva.

Oggi siamo inondati da notizie dell’ultim’ora che ci parlano di violenze, devastazioni, catastrofi, povertà. Anche grazie ai social media, sappiamo tutti dove e quando qualcosa accade. La grande sfida di chi fa informazione non è tanto raccontare cosa accade ma offrire strumenti per capire perché accade e come sia possibile affrontarlo ed evitare che si ripeta.

Pochi giorni fa a Londra il direttore generale dell’Onu Michael Møller, in un incontro con la stampa organizzato dal National Council for Voluntary Organisations (Ncvo), ha lanciato un appello ai media perché s’impegnino in un giornalismo costruttivo e positivo. Un giornalismo capace di educare, coinvolgere, mobilitare i cittadini, che li aiuti a capire, ad agire, a trovare risposte. Un giornalismo che, oltre ad informare, affronti i problemi e suggerisca soluzioni. Michael Møller ha usato, non casualmente, l’espressione «constructive journalism».

Il giornalismo costruttivo o delle soluzioni rappresenta un nuovo approccio all’informazione e alle notizie, come spiega nel libro Constructive News uno dei suoi promotori, Ulrik Haagerup, direttore del Danish Broadcasting Corporation. Fare giornalismo costruttivo significa approfondire, ascoltare, andare oltre le cosiddette «buone notizie» e il più tradizionale approccio del «dare voce a chi non ha voce» perché raccontare chi vive ai margini o chi compie buone azioni non basta e non serve più. Occorre aiutare le persone a trovare risposte e soluzioni positive. Sostenere e sollecitare il cambiamento e non soltanto raccontarlo, questo lo scopo del giornalismo costruttivo o delle soluzioni.

Questo nuovo modo di fare informazione mette in discussione il tradizionale rapporto tra giornalisti e cittadini, tra fonti e notizie. È un giornalismo che ha bisogno di un coinvolgimento attivo degli utenti, che non rincorre le notizie ma le costruisce insieme ai cittadini, dando forza e visibilità al loro agire sociale. È un giornalismo che invoglia ad approfondire e a condividere, è un giornalismo che piace e funziona, come dimostra un esperimento condotto dall’Università del Texas, i cui risultati sono stati pubblicati nel documento «The Power of Solutions Journalism».

A 755 persone è stato chiesto di leggere uno di sei articoli relativi a tre diversi problemi sociali: senzatetto, traumi infantili e povertà. Ogni articolo aveva due versioni: una contenente la mera denuncia del problema e una, identica alla prima, ma con l’aggiunta di una soluzione al problema. Ebbene chi aveva letto l’articolo con un approccio alla soluzione al problema si sentiva più informato e interessato ad approfondire il tema. Inoltre quei lettori, proprio perché si sentivano più ottimisti e positivi, erano anche più propensi a condividere la notizia sui canali social.

Photo by Istar – Flickr

Del resto se guardiamo al sondaggio «Il giornalismo che vorresti» realizzato la scorsa estate dal blog collettivo Valigia Blu, vediamo che alla domanda «quali notizie vorresti che fossero più trattate» gli oltre 1000 partecipanti hanno risposto: diritti civili e sociali (50%), Europa (28,3%), legalità (27,6%) e storie ‘positive’ (24,4%). E alla domanda «quali sono le priorità del giornalismo» le due principali risposte sono state «giornalismo di approfondimento» e «giornalismo libero da influenze politiche».

E proprio Valigia Blu, sempre nell’estate del 2015, ha promosso un ottimo esempio di giornalismo costruttivo con «Migranti. Storie di solidarietà e accoglienza». Una raccolta di «racconti-anticorpo contro il veleno dell’odio» segnalati dagli stessi cittadini, uno spazio come scriveva arianna ciccone, per dare «voce a persone e storie che raccontano un’altra storia. Fatta di incontri, di integrazione, di generosità e di amore per il prossimo». Un progetto che aveva l’ambizioso scopo di contrastare l’odio e il razzismo. «Un odio – continuava Arianna Ciccone – che circola tutto intorno a noi e che per fortuna – anche grazie ai social – possiamo vedere, conoscere e quindi in qualche modo affrontare. Non cova sotterraneo, è lì in vista e ci sfida. Nessuno di noi potrà dire: ‘Non sapevo’. Ecco perché nonostante tutto, nonostante l’ingenuità forse di questa nostra idea, vale la pena provarci». E l’esperimento ha funzionato. Tra giugno e luglio decine e decine di persone hanno segnalato storie di solidarietà e accoglienza offrendo uno spaccato inedito del nostro Paese e suggerendo che il ‘problema migranti’ può essere affrontato e risolto in modo diverso e positivo, per tutti.

Sempre sul tema migranti, recentemente La Stampa ha lanciato Cosmopolitaly, un progetto per «raccontare i migranti con i lettori». Leggendone la presentazione, l’idea appare però poco sviluppata, poco coinvolgente e molto lontana da quel giornalismo costruttivo di cui abbiamo parlato. Addirittura si invitano i lettori ad ‘allargare’ lo sguardo e a raccontare, facendosi storici delle migrazioni, anche gli italiani che sono emigrati nelle Americhe un secolo fa (sic!). Quel che il giornale torinese chiede ai suoi lettori sembra davvero così confuso e tirato via, da risultare inutile anche a raggiungere lo scopo (minimo) del progetto, ovvero fare in modo che «il racconto dei lettori integri e dia forza a quello dei giornalisti». Idea quest’ultima che è l’antitesi del giornalismo costruttivo, il cui senso è esattamente l’opposto: è il racconto dei giornalisti che deve integrare e dare forza all’esperienza (positiva) dei lettori-cittadini.

Come mostra l’esempio de La Stampa, in Italia c’è ancora molto da fare e da capire. Raccontare storie positive e suggerire soluzioni non è un mero stratagemma per raccogliere foto e «racconti di episodi, circostanze o personaggi» o per aumentare i click e i like agli articoli ma un lavoro d’informazione molto serio, che ha bisogno di impegno, responsabilità e professionalità. Un lavoro per il quale non basta certo una paginetta di (confusa) spiegazione, un gioco di parole come titoletto e una email dedicata a cui inviare le ‘segnalazioni’.

Nella patria del The Guardian – uno dei migliori esempi di giornalismo sia per la qualità delle notizie che per la capacità di coinvolgimento dei lettori – si è da tempo capito che perché questo tipo di giornalismo (ma non solo) abbia successo occorre coinvolgere, in modo attivo e autentico, non solo i cittadini ma il mondo del volontariato e dell’associazionismo. Chi meglio delle associazioni può contribuire a promuovere la partecipazione attiva all’informazione e la produzione di notizie positive e costruttive? Ecco perché il National Council for Voluntary Organisations ha lanciato il progetto «Constructive Voices» per sensibilizzare associazioni e giornalisti al giornalismo costruttivo.

Grazie alla collaborazione con la piattaforma AskCharity promossa dal network di comunicatori per il non profit CharityCommons, il progetto non solo offre a volontari e giornalisti indicazioni e suggerimenti per realizzare e raccontare storie positive ma rappresenta uno spazio concreto di incontro tra volontariato e media. Le associazioni possono, infatti, compilare un modulo online in cui, dopo avere scelto uno dei 14 ambiti di intervento, devono spiegare la propria attività e l’impatto positivo che quell’attività ha sulla comunità. Nel modulo è necessario indicare i recapiti e il nome della persona da contattare per saperne di più. Anche i giornalisti possono compilare un modulo e richiedere «case studies of positive solutions» specificando l’area geografica e l’ambito di interesse. Ncvo risponde alle richieste dei giornalisti e, grazie alle proposte delle associazioni, li aiuta ad individuare le storie e le persone da raccontare.

Ecco un’idea semplice ed efficace per spingere media e volontariato ad incontrarsi, a collaborare per costruire un nuovo approccio all’informazione, più critico, coinvolgente e positivo. Un adagio popolare recita «nessuna nuova, buona nuova» ma tra chi fa giornalismo più spesso si dice «cattiva notizia, buona notizia». I media e le charity inglesi hanno cominciato a capire che non funziona più così, e noi?

Per saperne di più sul giornalismo costruttivo, su YouTube sono disponibili le videoregistrazioni dei due seminari che si sono svolti lo scorso aprile a Perugia al journalism festival: “Solutions for constructive journalism” e “What constructive journalism is and why we need it”. Una sintesi del secondo seminario si può leggere su Puntozerohub.

Per chi, invece, vuole farsi un’idea delle notizie positive pubblicate dalla stampa italiana può consultare il mio canale Telegram Social&Positive News, dedicato a notizie positive su solidarietà, diritti, ambiente e innovazione sociale.

Post scriptum. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano Anna Masera, che proprio a La Stampa è public editor (una sorta di «garante dei lettori», figura poco nota in Italia ma molto importante), e gli allievi della Scuola di giornalismo Walter Tobagi i cui reportage qui su Medium seguo sempre con molto interesse.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su www.theway.uidu.org

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cristina galasso

Mi occupo di non profit e comunicazione sociale. Su Telegram curo un canale di notizie positive e giornalismo costruttivo: https://t.me/socialpositivenews